A talk with Andrea Tiveron, CEO di eMetodi

Sono i "software di mercato" che devono imporre alle aziende un modello e dei processi organizzativi o viceversa? Ne parliamo con Andrea Tiveron, CEO di e-Metodi.

Ciao Andrea, quanto è centrale e strategico un modello di processo in un’azienda?

La formalizzazione dei modelli organizzativi è di fondamentale importanza per tutte le aziende che hanno necessità di affrontare la crescente complessità del contesto in cui operano: sociale, politico ed economico.
Si tratta di una strategia tesa alla creazione di modalità di rappresentazione del funzionamento dell’organizzazione che risultano necessarie per la loro comprensione sia verso l’esterno che, soprattutto, internamente.
Intanto perché, in particolare nelle aziende di grandi dimensioni, le persone che prendono decisioni per migliorare i processi organizzativi non sono le stesse che si trovano a gestirne gli effetti. Inoltre, perché è verso le proprie risorse umane che si sente sempre di più l’esigenza di distribuire la conoscenza dell’intero funzionamento organizzativo senza la quale, a causa della crescente interdipendenza dei processi, ogni ipotesi di miglioramento è destinata a fallire.
Se applicata a livello di intera organizzazione, tale strategia consente di immaginare nuove forme organizzative, capaci di superare l’attuale condizione gerarchica e verticistica che risulta incapace di affrontare, con la necessaria competenza, le dinamiche complesse dei contesti in cui le aziende operano.

Perché un’azienda dovrebbe dotarsi di un proprio software per gestire i processi anziché una soluzione di mercato?

È molto strano che ci si debba ancora meravigliare del fatto che la maggior parte delle aziende acquisiscano prodotti software per il proprio funzionamento, piuttosto che sviluppare un proprio sistema informativo acquisendo strumenti e metodologie abilitanti.

La differenza è evidente. Nel primo caso l’azienda si “adegua” allo strumento e sostanzialmente si sottopone ad un funzionamento basato sugli schemi del prodotto software acquisito, mentre nel secondo avviene esattamente il contrario, è il sistema che si plasma sulle procedure organizzative e queste non possono che essere specifiche di ogni singola azienda.

Non è un caso, pertanto, se assistiamo ad una sorta di omologazione sul mercato quanto a funzionamento della maggior parte delle aziende, che risultano intrappolate nella logica delle cosiddette best practices calate dall’alto nel momento della scelta del prodotto software.
Dovrebbe essere oramai evidente come l’utilizzo di schemi “validi per tutti” è semplicemente qualcosa che appartiene ad un mondo che oramai non esiste più.In realtà, quando si tratta di sistemi informativi, sistemi che proprio per il loro nome sono deputati alla generazione di informazioni, dovrebbe essere tutto molto chiaro. Ma purtroppo, invece, così non è.

img_interna_1Il motivo sembra derivare dalla necessità di realizzare un vero e proprio salto culturale nel campo della conoscenza di base dei principi della scienza dell’informazione. E così, già il significato della stessa parola “informazione”: “dare forma”, dovrebbe far capire che si tratta di un contesto nel quale l’azione è quella della creazione di qualcosa di nuovo.

Una condizione nella quale il raggiungimento di obbiettivi realmente possibili e sostenibili oggi, può avvenire solo se tutti gli attori in gioco sono chiamati ad un processo condiviso di creazione generativa.

Su quale framework si basa il vostro approccio metodologico?

Il nostro approccio è “liquido” perché va ben oltre l’utilizzo delle metodologie “agili” dell’ingegneria del software. Per similitudine, la liquidità è intesa come una doppia pelle che riveste il corpo di un uomo. La persona può naturalmente ingrassare come dimagrire e il sistema “pelle” vi si adatta naturalmente.

La nostra metodologia si chiama “metodo al contrario” perché si basa sull’idea che bisogna generare nuovi processi a partire proprio dalla fine, cioè dai risultati che si vogliono garantire, espressi con valori numerari, per poi a ritroso arrivare fino alla definizione degli sprint iniziali del progetto. Un metodo, in definitiva, di facile comprensione e il cui utilizzo, completamente orientato alla garanzia dei risultati, sarebbe quanto mai auspicabile nei più diversi contesti: politici, economici e sociali.

Operativamente la nostra metodologia si applica attraverso il co-design organizzativo ovvero carta bianca e un bel po’ di matite colorate. I fogli bianchi servono per “resettare" il mindset e ricominciare ad immaginare il futuro dei nostri sistemi consentendo alle persone la massima libertà di visione.
Successivamente utilizziamo un framework informatico denominato XCASE© eXtreme Computer Aided Engeneering ovvero un software per generare in modo prototipale e incrementale sistemi informativi per l’automazione di processo.

Con questo strumento, prima di tutto definiamo gli obiettivi organizzativi espressi sotto forma di Objectives and Key Results (OKRs), ovvero di indicatori molto simili a quelli definiti nel piano di miglioramento dello standard ISO 9000. Successivamente, attraverso XCASE© che ha al suo interno un generatore e un visualizzatore di processi formalizzati in Business Process Modeling Notation (BPMN) secondo la notazione standard 2.0 dell’Object Management Group, procediamo alla mappatura dei processi generati in fase di co-design e al loro collegamento con gli obiettivi di miglioramento. L’utilizzo del Business Process Management è stato però reso estremo (eXtreme) con la introduzione dei cardini del pensiero sistemico, attraverso l’inserimento nella mappatura della dinamica di stock e flussi del passaggio di stato tra un task e l’altro dei processi.

Si tratta quindi di un approccio molto interessante per tutte le organizzazioni che sentono la necessità di “vedere” il futuro e non invece di disporre di metodologie per la valutazione degli eventi passati.

Infine, sempre attraverso XCASE©, applichiamo la prototipizzazione rapida (fast prototyping) per lo sviluppo del sistema informativo in modalità dinamica e incrementale integrando tutte le capacità del Business Process Automation (BPA) e del Robotic Process Automation (RPA) disponibili, con lo scopo di generare quante più attività automatiche possibile.

La BPA è evidentemente ancora legata agli eventi di interazione uomo-macchina anche se le sue capacità generative di nuovi dati e azioni sono fondamentali per recuperare tempo per le persone da dedicare alla visione delle possibilità.

La RPA è, invece, completamente autonoma e deriva dalla capacità di costruire i cosiddetti “sistemi esperti” ovvero routine capaci di esplicarsi con autonoma incredibile efficienza. Come si vede continuiamo a chiamarla correttamente “efficienza” artificiale e niente affatto “intelligenza” come invece ahimè accade sempre più frequentemente, ignorando addirittura il significato delle parole.
In definitiva, quindi, lavoriamo per creare sistemi informativi capaci di liberare quanto più possibile le persone dal controllo delle attività per consentire loro di disporre di maggior tempo per pensare, condividere ed elaborare il miglioramento organizzativo interno e quello dei rapporti con l’esterno.
È evidente, quindi, che alla raccomandazione di avviare progetti per l’implementazione di propri sistemi informativi deve necessariamente seguire una azione organizzativa coerente. Questa di fronte alla complessità non può che derivare dalla condivisione della conoscenza con realtà interne o esterne che sappiano dimostrare la stessa capacità di “nuovo pensiero”.

Evidentemente, per questo, come affermano gli analisti di Gartner, le nuove applicazioni del futuro saranno assemblate e composte dalle persone che effettivamente le utilizzeranno. Ma questa possibilità non potrà mai avvenire se banalmente le aziende seguiranno la nuova chimera del mercato, il “low coding” e la sua ingannevole illusione: che si possano costruire sistemi informativi a partire da pattern predefiniti, che possono fare al massimo solo il massimo per il quale sono stati progettati.

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Oggi le normative in termini di sicurezza sul lavoro sono sempre più stringenti. Può rappresentare per un’azienda l’occasione per ripensare il proprio Process Model?

La risposta è sicuramente sì.
La sicurezza sul lavoro è un ambito squisitamente culturale. Non vi può essere attitudine alla sicurezza se non in un contesto di conoscenza condivisa. Un tale ambito, pertanto, può svilupparsi positivamente solo in aziende nelle quali la conoscenza è ampiamente distribuita e generata.
In definitiva, quindi, per le organizzazioni che non sono ancora orientate al co-design, la sicurezza sul lavoro, attraverso forme di partecipazione aperta di tutti i portatori di interesse, può rappresentare il nucleo fondativo per un nuovo paradigma di co-creazione, un modo di concepire le logiche d’impresa e in particolare quelle tese alla valorizzazione dei talenti interni.

Ma c’è di più. Infatti, a ben vedere, il tema della sicurezza porta con sé, legato inscindibilmente, quello della manutenzione. E quest’ultima, guarda caso, essendo la scienza deputata al mantenimento delle prestazioni, studia ed implementa di fatto sistemi orientati alla garanzia dei risultati. Stiamo quindi trattando da un lato dello stesso identico obiettivo al quale abbiamo accennato precedentemente, mentre dall’altro di una delle vere gravi mancanze strategiche di tutti i sistemi produttivi esistenti.

Cosa significa “fare innovazione” per e-Metodi?

Il significato di innovazione è “fare le cose in modo nuovo”. In questo senso, possiamo affermare che negli ultimi tempi assistiamo ad un fenomeno di continua crescente capacità di innovazione, spesse volte di tipo rivoluzionario, rispetto a periodi storici caratterizzati piuttosto da fenomeni legati all’invenzione. Ed è possibile affermare, senza possibilità di errore, che lo spazio per l’innovazione sia destinato a crescere ancora esponenzialmente in futuro.
Eppure, la dinamicità, l’incertezza e la complessità delle interrelazioni del mondo in cui viviamo, siano esse riferite semplicemente al vicino ambito familiare che al lontano sistema solare, sono tali da soffocare ogni possibilità di una loro comprensione.

E, inoltre, l’evoluzione della scienza e della tecnica, per la loro completa incapacità di governare il loro stesso utilizzo per scopi che siano esclusivamente di interesse della collettività intesa come intera umanità, sembrano, ma in realtà sono, fattori moltiplicativi della complessità globale e di una pressione generale alla quale siamo totalmente esposti.
Insomma, più progrediamo (o più pensiamo di progredire) e più aumenta esponenzialmente la complessità e l’insopportabilità dei contesti in cui viviamo.

Ecco perché per noi, invece, il significato di “fare innovazione” è diverso, e si riferisce piuttosto al “pensare in modo nuovo”.
Servono così nuovi modi di pensare e questi non possono che scaturire da un nuovo modo di partecipazione collettiva alla prospettazione di nuovi bisogni e obiettivi che siano capaci di traghettarci, gradualmente, verso nuovi modi di vivere del tutto diversi da quelli attuali.
In questo senso il contesto lavorativo, che attualmente è l’ambito nel quale trascorriamo gran parte della nostra vita, è il primo nel quale intervenire proprio per innescare nuove forme di relazioni di co-creazione. E la nostra organizzazione ormai da tempo sta cercando di trovare realtà nelle quali far attecchire il seme del cambiamento di prospettiva, attraverso l’instaurazione di duraturi rapporti di co-makership organizzativa, ovvero di relazioni sinergiche di co-operazione di esperienze e di idee.
Se qualcuno che qui sta leggendo sente di far parte di una di queste realtà, noi saremo orgogliosi di poter co-incontrare, con vero piacere, le reciproche competenze.

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